Un secolo difficile
L’Ottocento è un secolo topico per la sonnolenta Repubblica di San Marino uscita indenne prima dalla parabola napoleonica e poi dal processo unitario e postunitario italiano. Il rischio che stava correndo era grave e forse fatale per la sopravvivenza del piccolo Stato, si trattava dell’omologazione e dell’assorbimento della Repubblica nel processo unitario italiano. La macchina pubblica era dunque alla prova per far valere l’autonomia e la sovranità dello Stato nei confronti del nuovo Regno d’Italia e per ridefinire l’identità statuale in forme più scolpite e riconoscibili di quanto fosse stato necessario prima.
Occorreva svecchiare gli apparati, restituire decoro alla città, dotarsi di nuovi attributi simbolici e concreti, di edifici e di istituzioni pubbliche che potessero parlare ai nuovi interlocutori internazionali del valore, della longevità, dell’autorevolezza di una esperienza secolare di autogoverno sulla quale si fondava la legittimazione del potere sovrano.
Nella decisione di costruire un Palazzo Pubblico rinnovato, sulle spoglie dell’antica e fatiscente domus magna communis, si coagulavano dunque le aspirazioni dei sammarinesi all’esordio sullo scenario della grande politica europea, cui San Marino si affrettava grazie a una accorta politica diplomatica e al prestigio del suo modello repubblicano in epoca risorgimentale.
La Repubblica stava infatti godendo di una inaspettata fama internazionale grazie al suo intervento in uno degli episodi più salienti dell’epopea garibaldina. Il mondo aveva quasi improvvisamente scoperto l’esistenza di un minuscolo Paese, virtuoso e impavido, che aveva sfidato gli eserciti di mezza Europa per difendere Garibaldi e il suo manipolo di laceri ed esausti combattenti in fuga da Roma. Il nome di San Marino si legava così a un passaggio eroico dell’epica risorgimentale - il sacrificio della migliore gioventù italiana nella luminosa e tragica esperienza della Repubblica Romana - e si legava indissolubilmente alla biografia dell’Eroe dei Due Mondi, che non dimenticò di esprimere la propria riconoscenza ai sammarinesi.
Ma il cantiere del Palazzo è anche il luogo virtuale dove si disputa il conflitto fra le nuove classi emergenti e il notabilato oligarchico, dove si stemperano le tensioni sociali con la carta delle opere pubbliche contro il pauperismo endemico, dove si sancisce l’esigenza di una complessità istituzionale più aderente alle sensibilità politiche che approderanno nel 1906 all’avvento del suffragio popolare con la grande, pacifica, rivoluzione dell’Arengo Generale dei Capifamiglia.
Il Palazzo Pubblico diventa icona dello Stato, nella concretezza e nella visibilità delle sue austere forme architettoniche si identifica la cultura, la storia e la tradizione istituzionale di una comunità.
La domus magna communis
Le convocazioni del Consiglio in origine si tenevano nell’antica Pieve, come ricorda la prima citazione di queste in un atto relativo al 1253 conservato presso il nostro Archivio di Stato. La tradizione vuole che in seguito fossero ospitate in una casa situata sotto la Rocca, entro la prima cinta di mura della città, ma nei secoli XIV e XV le riunioni già si tenevano nella domus magna communis e ricorda Carlo Malagola “…talvolta anche nel Borgo, poi, come nei tempi più antichi, e forse perché il Palazzo pubblico minacciava ruina, si adunò di nuovo nella Pieve nel 1561, e prese poi stabile dimora nel ricostruito palazzo del Comune dal 1625, dopo che questo era stato rifatto nel principio del secolo XVII.”
Il nuovo Palazzo Pubblico sul Pianello, oggi piazza della Libertà fu costruito esattamente sopra la vecchia domus magna communis, un edificio senza pretese che risaliva alla fine del Trecento. L’unico elemento significativo della facciata era il piccolo portico a tre arcate. All’interno vi si trovava un grande atrio (che nel corso del Seicento e del Settecento veniva usato anche come teatro) dal quale si accedeva direttamente alla Segreteria di Stato e ad una scala che permetteva di salire
all’Archivio, situato nel mezzanino sopra il portico, e alla Sala del Consiglio dei Sessanta, oppure di scendere negli uffici del Camerlengo, del Catasto e del Registro, e infine nei sotterranei adibiti a prigioni. Il piccolo edificio nel corso degli anni aveva subito molti restauri ma nessuno risolutivo. Quello del 1543 era stato addirittura affidato alle cure di Giovan Battista Belluzzi, il geniale sammarinese che si era conquistato la fiducia dei Medici prestando loro i suoi servigi in qualità di architetto militare e morendo proprio al loro servizio nella guerra di Firenze contro Siena. E’ certo che i denari a disposizione non fossero molti e che questa fosse probabilmente la causa di tanti esiti insoddisfacenti. Durante il Cinquecento erano state vendute proprietà pubbliche e si era perfino giunti all’istituzione di una tassa apposita, ma nella seconda metà del Seicento i tanto sospirati restauri della domus magna communis non erano ancora terminati.
Finalmente il nuovo Palazzo Pubblico
Finalmente nel 1836 si pensò seriamente a realizzare un nuovo edificio e l’incarico fu affidato all’architetto bolognese Antonio Serra, che già si era occupato della ricostruzione della Pieve. Il Serra realizzò un progetto in stile neoclassico, anche questo rimasto inaspettatamente e tristemente lettera morta. La clamorosa bocciatura del progetto la dice lunga sulle visioni identitarie dei componenti della Commissione delegata al giudizio. Fu ritenuto troppo pomposo per rappresentare degnamente e fedelmente gli ideali di sobrietà e semplicità del comune rustico, esaltati dagli utopisti seicenteschi nella loro apologia della piccola Repubblica tratteggiata come modello di “città felice”. Ma occorrerà un altro mezzo secolo perché le ambizioni di quei sammarinesi, sulla spinta delle nuove esigenze di visibilità della Repubblica, potessero tradursi in un vero e proprio programma politico, pedagogico e propagandistico lucidamente mirato a ufficializzare il mito della “libertà perpetua”.
A questo programma corrisponde con coerenza la deliberazione, assunta dal Consiglio nella seduta del 20 dicembre 1880, di ricostruire il Palazzo Pubblico con la prescrizione che lo stile dovesse essere ispirato all’architettura medievale. Doveva essere chiaro e percettibile come le virtù comunali di libertà e di partecipazione democratica, dissipate altrove, fossero invece state perseguite tenacemente nella storia repubblicana e l’aspetto dell’erigendo palazzo avrebbe avuto il compito di offrirne una concreta testimonianza.
L’architetto e il deus ex machina
L’Azzurri è l’architetto giusto. Cresciuto nell’ambiente artistico del purismo romano, si era costruito una fama proprio per le sue realizzazioni in forme cinquecentesche e per la sua erudita conoscenza dell’architettura classica. Per giunta nel 1880 era divenuto presidente dell’Accademia di San Luca, la stessa nella quale aveva studiato disegno negli anni della sua gioventù Pietro Tonnini, il sammarinese al quale era stato affidato il compito di selezionare un architetto di prestigio per l’importante incarico.
Il Tonnini identificava l’esponente esemplare del notabilato oligarchico. Pittore di modesto talento, aveva dedicato ben poco tempo della sua lunga vita alla professione, mentre aveva ricoperto decine di incarichi come diplomatico e come uomo di stato e di amministrazione. In veste di tenente della milizia cittadina era stato l’ultimo sammarinese a congedarsi da Garibaldi in fuga verso Ravenna. Per anni aveva caldeggiato la ricostruzione del Palazzo e di questa divenne fatalmente il deus ex machina, spingendosi anche ben aldilà del suo ruolo di Presidente della Commissione dei Lavori. Il suo sodalizio con l’Azzurri, fondato sulla condivisione di una sensibilità estetica maturata all’ombra dell’accademia, si rivelò decisivo per il successo dell’impresa, ma finì per attardare il clima culturale sammarinese sui tiepidi modelli degli artisti che gravitavano attorno all’Azzurri. Emilio Retrosi, Giulio Tadolini, Luigi Cochetti egemonizzarono infatti le committenze pubbliche sammarinese per quasi un decennio.
Il cantiere: dieci anni di lavoro
Dopo un lungo periodo di gestazione finalmente il 17 maggio 1884 il cantiere del Palazzo apriva i battenti con la posa della prima pietra, ma occorsero ben dieci anni perché i lavori, realizzati dal capomastro costruttore Giuseppe Reffi, fossero portati a compimento. Dalla fitta corrispondenza fra l’Azzurri e il Tonnini emerge una interminabile sequenza di difficoltà, ritardi, imprevisti e sullo sfondo, la solita, frustrante, cronica mancanza di fondi. Le maestranza sammarinesi non gradivano la ponderatezza dell’Azzurri, la sua lentezza a produrre gli elaborati esecutivi, volevano lavorare e la loro pressante richiesta di lavoro inasprì il dissidio fra il governo e gli scalpellini. Il Tonnini si vide perciò costretto a pregare l’Azzurri di promuovere la vendita dei titoli nobiliari sammarinesi a Roma, fra le sue amicizie dell’alta borghesia romana più suscettibili alle ambizioni di ascesa sociale. Reggente al suo quinto mandato, il Tonnini non si fece scrupolo di mettere in campo la sua autorevolezza di capo di stato per sfruttare le sue conoscenze francesi e ottenere da Parigi un prestito di centomila lire. Una boccata d’ossigeno per le magre finanze della Repubblica che finalmente potè vedere completata l’opera. Ma per un assurdo scherzo del destino, proprio il Tonnini, colui che più appassionatamente si era adoperato per il successo dell’impresa, non ebbe il privilegio di gioire per il coronamento del sogno che aveva prima vagheggiato e poi perseguito per tutta la vita. Pietro Tonnini scompare il 24 agosto 1894, trentasette giorni prima della inaugurazione del Palazzo a causa di una brevissima e fulminante malattia. Era Capitano Reggente, circostanza memorabile e rara che almeno gli procurò un fastoso funerale di Stato. All’interno del Palazzo resta memoria del suo inesausto impegno tanto ché il suo nobile profilo è visibile per ben due volte: nella lapide marmorea situata lungo lo scalone d’onore, e nell’omaggio tributato da Emilio Retrosi che lo effigiò nel ritratto di uno dei due Reggenti nella grande tempera murale della Sala del Consiglio.
Un grande poeta per l’inaugurazione
L’inaugurazione del nuovo Palazzo avvenne in un clima festoso il 30 settembre 1894. La solenne cerimonia fu preparata con grande cura e le fu dedicata molta attenzione dalla stampa dell’epoca. Nonostante il tempo piovoso, tantissime autorità erano convenute sul Titano, alcune provenienti fin da Parigi e Vienna. Il Governo aveva affidato all’oratoria di Giosuè Carducci il compito di celebrare l’avvenimento e il poeta non deluse le aspettative dei sammarinesi. Il suo celebre discorso, dedicato alla Libertà perpetua di San Marino, segnò un altro importante passaggio di quel programma politico, dettato dalla ragion di stato, che in quel momento richiedeva la legittimazione della Repubblica nei confronti dei nuovi assetti geopolitici italiani ed europei.
Per il suo discorso Carducci non solo fu insignito del Gran Cordone dell’Ordine di San Marino, ma si guadagnò l’amicizia di tutti i sammarinesi. Accompagnato dalla figlia Laura era giunto in carrozza da Rimini il giorno prima della cerimonia, e aveva preso alloggio presso l’abitazione di Marino Fattori che, entusiasta per l’alto onore, non aveva lesinato nella sua rustica ospitalità. Su quel breve soggiorno di Carducci a San Marino nulla sfuggì alla fantasia popolare che vi ricamò attorno una colorita e affettuosa aneddotica.
Conclusioni
Nel nuovo Palazzo ripresero a funzionare tutti gli uffici amministrativi e politici che erano stati ospitati nel vecchio. Gli spazi più razionali ne migliorarono la funzionalità, ma soprattutto le forme, le simbologie e gli elementi commemorativi che costellano le superfici interne ed esterne ne accrebbero la validità rappresentativa.
Oggi non sfugge nemmeno al più distratto turista che il Palazzo Pubblico è il simbolo dello Stato sammarinese, della sua sovranità e del suo ideale di libertà e di indipendenza.